Post by latina85 on Oct 8, 2006 0:43:05 GMT -5
La ballata del soldato Pandey
di Filippo Del Lucchese
Bollywood al servizio del cinema ‘impegnato’. Si potrebbe riassumere così il colossal firmato da Ketan Metha (già apprezzato, non solo in India, per “Bhavni Bhavai” e “Mirch Masala”) e dedicato alla leggendaria figura di Mangal Pandey, fante al soldo inglese e poi ribelle per la causa della libertà nazionale.
La ‘ballata’ contiene tutti gli elementi del cinema bollywoodiano in grande stile: amori travolgenti, danze conturbanti, duelli all’arma bianca. Ma l’intento principale di Metha è proprio quello di impiegare la macchina scenografica al servizio di una storia politica ben precisa, quella della prima ‘guerra d’indipendenza’ dal dominio coloniale inglese. La vicenda è infatti ambientata alla metà del XIX secolo e l’indipendenza vera e propria arriverà per l’India quasi un secolo dopo. Qui siamo ancora ai primordi del risveglio di una coscienza nazionale, che Metha interpreta principalmente in termini di gerarchia razziale. La ‘linea’ del colore è proprio quella invalicabile, che separa e che oltre ogni amicizia non può né potrà mai rendere uguali l’oppressore e l’oppresso, il carnefice e la vittima, come ha sottolineato a Locarno l’attore principale del film Aamir Khan, in occasione della prima mondiale, con un riferimento esplicito alla lotta di ogni popolo per la libertà e in particolare a quella del popolo iraqeno contro il colosso coloniale americano.
Khan (Lagaan: Once Upon a time in India) interpreta il sepoy Mangal Pandey, soldato indiano impiegato dalla Compagnia delle Indie nei propri teatri di guerra orientali. Non è la corona inglese, infatti, a esercitare direttamente il potere nei possedimenti britannici alla metà dell’Ottocento. La Compagnia controlla direttamente il commercio schiacciando sotto il proprio ‘tallone di ferro’ qualsiasi resistenza. Proprio in Afghanistan Mangal Pandey salva la vita e si lega fortemente a William Gordon (Toby Stephens, Die Another Day), un ufficiale bianco, colto e sensibile, diviso fra la fedeltà al proprio ‘mestiere’ e la coscienza che qualcosa di sbagliato, nel sistema coloniale, forse c’è. Intorno a quelle maschili si muovono altrettante figure femminili, belle ma di ‘poco spessore’, come forse si addice, secondo produzione e regia, a una ballata epico-militare di questo tipo (Rani Mukherji nei panni della schiava-prostituta Heera, Ameesha Patel in quelli di Jwala, la giovanissima vedova destinata al Sati).
Il capitano Gordon impersona la coscienza critica dell’Occidente. Descrive con chiarezza manualistica, spiegandolo alle inorridite miss inglesi, il sistema delle colonie. La Compagnia ha distrutto il tessuto produttivo agricolo dell’India, imponendo la produzione di oppio. L’oppio viene esportato in Cina tramite la guerra, per vincere le resistenze di una cultura estranea all’ideologia del ‘libero mercato’, mentre gli immensi guadagni vengono investiti solo per il controllo militare dei territori e per ingrassare i commercianti sudditi della regina. Alcuni storici hanno anche ipotizzato che questo immenso sistema di rapina abbia funzionato come ‘detonatore’ del processo di industrializzazione alla fine del XVIII e inizio del XIX secolo in Gran Bretagna.
Accanto a questa denuncia, però, Metha strizza l’occhio al ‘razionalismo’ occidentale inserendo elementi di complessità nella vicenda. Elementi ora felici ora caricaturali. In particolare, insieme all’amico Mangal, spada in pugno salva una bella vedova, destinata al Sati, il rogo tradizionale e purificatore insieme alla salma del marito. La pratica del Sati è stata già abolita dalla legislazione coloniale, ma i barbari indiani continuano a praticarla in modo superstizioso, resistendo alla ‘ragione’ imposta dalle giubbe rosse. Altrettanto fastidio si prova quando, con l’erudita gentilezza del militare d’altri tempi, Gordon spiega a Mangal la propria storia, la storia dell’India, aiutandolo a prendere coscienza dello sfruttamente e della condizione subita dal suo popolo. A tratti sembra di assistere non a una ballata epica composta per il popolo indiano, ma a un compiacente assist proprio per il ‘nemico’ coloniale. Verrebbe da dire ‘inglesi brava gente’, che certo spogliano e sfruttano il paese, ma insieme portano la ragione contro la superstizione.
Proprio la ‘superstizione’ religiosa, però – in modo nuovamente ambivalente – spingerà Mangal a fomentare e guidare fino al sacrficio la rivolta contro gli inglesi. Viene introdotto un nuovo tipo di fucile, le cui cartucce ‘Enfield’ sono fabbricate impiegando grasso di vacca e di maiale. Come se non bastasse, per caricare la nuova arma, la cartuccia va aperta strappandone l’estremità con i denti. Un orrore per i sepoy, in parte musulmani e in parte indiani. Proprio Mangal, per dar credito all’amico William, strappa per primo e inconsapevolmente una di queste cartucce. Quando viene a sapere dell’inganno, in cui anche l’ingenuo Gordon era stato tratto, la situazione precipita verso un’inevitabile rivolta.
Di grandissimo interesse il ritratto che Metha compone della forza ribelle, composta appunto da musulmani e hyndu, prima che le future divisioni portassero a un’ulteriore guerra fratricida. Ancor più significativa, questa scelta, per il fatto che Ketan Metha è originario del Gujarat, teatro in anni recenti di uno dei più sanguinosi episodi di genocidio razziale degli estremisti hyndu contro la comunità musulmana. Interessante, inoltre, vedere come i sovrani locali, corrotti o conniventi con le autorità inglesi, siano spinti ‘dal basso’ a organizzarsi e offrire il proprio aiuto ai ribelli. Aiuto e organizzazione che, tuttavia, non saranno sufficienti contro il mitico battaglione di Rangoon. Tempestivamente i generali inglesi, pur in minoranza, riescono a stroncare sul nascere la resistenza. Non riescono però a cancellare lo spirito della rivolta e la leggenda di Mangal Pandey si forma qui. Il film si chiude con immagini reali tratte dalla lotta anticoloniale del popolo indiano e con la notizia di un ufficiale di nome Gordon che si unì alla causa dei rivoltosi, rinnegando il proprio ‘onore’ e la bandiera della regina.
Metha firma un film a tratti semplice e ingenuo. Ma se e in quanto ha un senso contestualizzare un lavoro di questo tipo, senza reclamarne cioè a tutti i costi uno statuto di validità estetico-politica universale, cioè occidentale, la prospettiva cambia di molto. Benché la bandiera indiana che sventola alla fine del film debba ancora macchiarsi di molto sangue, benché la complessità non sempre felice dei nazionalismi cominci ben prima del manifestarsi dei loro effetti più perversi, The Rising ha il merito di rappresentare lo spirito di una rivolta. Si tratta pur sempre di una ballata, che non può essere meno caricaturale, quindi, delle ballate occidentali. Ma il pubblico di Bollywood forse apprezzerà questo tentativo e riscoprirà qualche elemento interessante della propria storia anche se, proprio come Mangal Pandey, forse non ha bisogno di nessun William Gordon per farlo.
[9.3.06]
di Filippo Del Lucchese
Bollywood al servizio del cinema ‘impegnato’. Si potrebbe riassumere così il colossal firmato da Ketan Metha (già apprezzato, non solo in India, per “Bhavni Bhavai” e “Mirch Masala”) e dedicato alla leggendaria figura di Mangal Pandey, fante al soldo inglese e poi ribelle per la causa della libertà nazionale.
La ‘ballata’ contiene tutti gli elementi del cinema bollywoodiano in grande stile: amori travolgenti, danze conturbanti, duelli all’arma bianca. Ma l’intento principale di Metha è proprio quello di impiegare la macchina scenografica al servizio di una storia politica ben precisa, quella della prima ‘guerra d’indipendenza’ dal dominio coloniale inglese. La vicenda è infatti ambientata alla metà del XIX secolo e l’indipendenza vera e propria arriverà per l’India quasi un secolo dopo. Qui siamo ancora ai primordi del risveglio di una coscienza nazionale, che Metha interpreta principalmente in termini di gerarchia razziale. La ‘linea’ del colore è proprio quella invalicabile, che separa e che oltre ogni amicizia non può né potrà mai rendere uguali l’oppressore e l’oppresso, il carnefice e la vittima, come ha sottolineato a Locarno l’attore principale del film Aamir Khan, in occasione della prima mondiale, con un riferimento esplicito alla lotta di ogni popolo per la libertà e in particolare a quella del popolo iraqeno contro il colosso coloniale americano.
Khan (Lagaan: Once Upon a time in India) interpreta il sepoy Mangal Pandey, soldato indiano impiegato dalla Compagnia delle Indie nei propri teatri di guerra orientali. Non è la corona inglese, infatti, a esercitare direttamente il potere nei possedimenti britannici alla metà dell’Ottocento. La Compagnia controlla direttamente il commercio schiacciando sotto il proprio ‘tallone di ferro’ qualsiasi resistenza. Proprio in Afghanistan Mangal Pandey salva la vita e si lega fortemente a William Gordon (Toby Stephens, Die Another Day), un ufficiale bianco, colto e sensibile, diviso fra la fedeltà al proprio ‘mestiere’ e la coscienza che qualcosa di sbagliato, nel sistema coloniale, forse c’è. Intorno a quelle maschili si muovono altrettante figure femminili, belle ma di ‘poco spessore’, come forse si addice, secondo produzione e regia, a una ballata epico-militare di questo tipo (Rani Mukherji nei panni della schiava-prostituta Heera, Ameesha Patel in quelli di Jwala, la giovanissima vedova destinata al Sati).
Il capitano Gordon impersona la coscienza critica dell’Occidente. Descrive con chiarezza manualistica, spiegandolo alle inorridite miss inglesi, il sistema delle colonie. La Compagnia ha distrutto il tessuto produttivo agricolo dell’India, imponendo la produzione di oppio. L’oppio viene esportato in Cina tramite la guerra, per vincere le resistenze di una cultura estranea all’ideologia del ‘libero mercato’, mentre gli immensi guadagni vengono investiti solo per il controllo militare dei territori e per ingrassare i commercianti sudditi della regina. Alcuni storici hanno anche ipotizzato che questo immenso sistema di rapina abbia funzionato come ‘detonatore’ del processo di industrializzazione alla fine del XVIII e inizio del XIX secolo in Gran Bretagna.
Accanto a questa denuncia, però, Metha strizza l’occhio al ‘razionalismo’ occidentale inserendo elementi di complessità nella vicenda. Elementi ora felici ora caricaturali. In particolare, insieme all’amico Mangal, spada in pugno salva una bella vedova, destinata al Sati, il rogo tradizionale e purificatore insieme alla salma del marito. La pratica del Sati è stata già abolita dalla legislazione coloniale, ma i barbari indiani continuano a praticarla in modo superstizioso, resistendo alla ‘ragione’ imposta dalle giubbe rosse. Altrettanto fastidio si prova quando, con l’erudita gentilezza del militare d’altri tempi, Gordon spiega a Mangal la propria storia, la storia dell’India, aiutandolo a prendere coscienza dello sfruttamente e della condizione subita dal suo popolo. A tratti sembra di assistere non a una ballata epica composta per il popolo indiano, ma a un compiacente assist proprio per il ‘nemico’ coloniale. Verrebbe da dire ‘inglesi brava gente’, che certo spogliano e sfruttano il paese, ma insieme portano la ragione contro la superstizione.
Proprio la ‘superstizione’ religiosa, però – in modo nuovamente ambivalente – spingerà Mangal a fomentare e guidare fino al sacrficio la rivolta contro gli inglesi. Viene introdotto un nuovo tipo di fucile, le cui cartucce ‘Enfield’ sono fabbricate impiegando grasso di vacca e di maiale. Come se non bastasse, per caricare la nuova arma, la cartuccia va aperta strappandone l’estremità con i denti. Un orrore per i sepoy, in parte musulmani e in parte indiani. Proprio Mangal, per dar credito all’amico William, strappa per primo e inconsapevolmente una di queste cartucce. Quando viene a sapere dell’inganno, in cui anche l’ingenuo Gordon era stato tratto, la situazione precipita verso un’inevitabile rivolta.
Di grandissimo interesse il ritratto che Metha compone della forza ribelle, composta appunto da musulmani e hyndu, prima che le future divisioni portassero a un’ulteriore guerra fratricida. Ancor più significativa, questa scelta, per il fatto che Ketan Metha è originario del Gujarat, teatro in anni recenti di uno dei più sanguinosi episodi di genocidio razziale degli estremisti hyndu contro la comunità musulmana. Interessante, inoltre, vedere come i sovrani locali, corrotti o conniventi con le autorità inglesi, siano spinti ‘dal basso’ a organizzarsi e offrire il proprio aiuto ai ribelli. Aiuto e organizzazione che, tuttavia, non saranno sufficienti contro il mitico battaglione di Rangoon. Tempestivamente i generali inglesi, pur in minoranza, riescono a stroncare sul nascere la resistenza. Non riescono però a cancellare lo spirito della rivolta e la leggenda di Mangal Pandey si forma qui. Il film si chiude con immagini reali tratte dalla lotta anticoloniale del popolo indiano e con la notizia di un ufficiale di nome Gordon che si unì alla causa dei rivoltosi, rinnegando il proprio ‘onore’ e la bandiera della regina.
Metha firma un film a tratti semplice e ingenuo. Ma se e in quanto ha un senso contestualizzare un lavoro di questo tipo, senza reclamarne cioè a tutti i costi uno statuto di validità estetico-politica universale, cioè occidentale, la prospettiva cambia di molto. Benché la bandiera indiana che sventola alla fine del film debba ancora macchiarsi di molto sangue, benché la complessità non sempre felice dei nazionalismi cominci ben prima del manifestarsi dei loro effetti più perversi, The Rising ha il merito di rappresentare lo spirito di una rivolta. Si tratta pur sempre di una ballata, che non può essere meno caricaturale, quindi, delle ballate occidentali. Ma il pubblico di Bollywood forse apprezzerà questo tentativo e riscoprirà qualche elemento interessante della propria storia anche se, proprio come Mangal Pandey, forse non ha bisogno di nessun William Gordon per farlo.
[9.3.06]